TESINE PARTECIPANTI CORSO EDIZIONE 2021
In questa sezione è possibile consultare gli absratct delle tesine prodottre al termine del corso del 2021.
TITOLO
Il 14 gennaio 2011, il professor Stefano Rodotà, in occasione della lezione dal titolo “La dignità della persona” alla Scuola di Cultura Costituzionale dell’Università di Padova, esprimeva un concetto chiave: “Noi, vivendo il tema della globalizzazione, viviamo il tempo di una drammatica e planetaria contesa tra pura logica del mercato e logica dei diritti”. Dieci anni dopo, la mia tesi su “Il diritto umano alla dignità: norme, temi e comunicazione”, certifica, dal mio punto di vista, la sconfitta del diritto ad opera dell’economia. Il diritto umano alla dignità, benché sancito da fonti di rango sovracostituzionale, è spesso privo di effettività, perché mancano politiche attive a suo sostegno. Così avviene nell’ambito dei fenomeni migratori, con esiti spesso drammatici, e nel mondo del lavoro, dove la strage nei cantieri continua e si è aggravata dopo la pandemia. Avviene anche nell’ambito dei problemi delle persone con disabilità, nelle carceri, nelle nuove povertà, come emerge dalle testimonianze che ho raccolto. L’informazione giornalistica, indebolita dal tracollo dell’editoria tradizionale e provata da un’intima crisi di coscienza, troppo spesso abdica al suo ruolo di denuncia in difesa del diritto e si adagia invece su tesi neoliberiste: fake news, linguaggio tossico, etichette diagnostiche e manipolazione delle notizie sono i frutti avvelenati di questo connubio.
Confirmation bias: l’algoritmo mentale
La tesi sviluppa una breve indagine sugli effetti del confirmation bias, pregiudizio di conferma, con l’intento di attirare l’attenzione sulla complessità che investe non solo una corretta trasmissione delle notizie, ma anche la loro consapevole ricezione. Con il termine confirmation bias si indica quel processo cognitivo di acquisizione e selezione delle informazioni sulla base di un giudizio preesistente. L’obiettivo di questa trattazione consiste nell’instaurare un paragone provocatorio tra la ricezione delle notizie tramite i social, viziata da algoritmi e echo chamber, e l’informazione tradizionale, in cui la polarizzazione delle opinioni degli utenti si concretizza a causa di meccanismi cognitivi inconsci come appunto il pregiudizio di conferma. Per valutare l’effettiva impronta del confirmation bias nella collezione di informazioni è stata tentata una piccola indagine, sviluppata in due parti: una prima fase ha consistito nell’osservazione del panorama dell’informazione tradizionale (reti televisive e quotidiani nazionali) al fine di comprendere se esista una reale polarizzazione politica all’interno della quale il pubblico può selezionare le sue fonti d’informazione in base alle sue preferenze ideologiche; si è poi conclusa l’indagine analizzando le risposte di un campione di 250 persone ad un breve questionario che ha messo in luce le relazioni tra le preferenze politiche del singolo utente e la scelta di una o dell’altra fonte d’informazione.
DISABILITÀ E DIRITTI: lo sport quale esempio di costruzione di contesti inclusivi.
Cos’è la disabilità, chi è una persona con disabilità e come vive, quali iniziative ha intrapreso la nostra società per rimuovere o ridurre gli ostacoli che discriminano le diversità funzionali di ciascuno di noi e quanto lo sport può essere considerato esempio di costruzione di contesti inclusivi. Il tema della disabilità mi ha dato l’opportunità di approfondire con lo studio l’evoluzione del riconoscimento dei diritti umani e della promozione di essi. L’origine e il contesto delle mie riflessioni sono nate dallo studio della Dichiarazione Universale dei diritti Umani e della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità e dall’osservazione di una società che ha costruito barriere, fisiche e mentali, per delimitare il riconoscimento di diritti primari: lavoro, salute, mobilità, socialità. Nel mio elaborato ho proposto il caso legato all’incredibile vicenda di un gruppo di non vedenti e ipovedenti bloccati da un addetto all’impianto delle scale mobili di Belluno il cui accesso era vietato ai cani, ma anche esempi di buone pratiche amministrative e la costruzione di contesti inclusivi nello sport animati dalle storie del campione paralimpico di tiro con l’arco, Oscar De Pellegrin, dall’ex pilota di freestyle, Alvaro Dal Farra, artefice della mototerapia, e da Mattia Cattapan, atleta paraplegico, ideatore e fondatore del progetto “Crossabili”. Con il mio lavoro ho cercato di dimostrare che il linguaggio può promuovere una società inclusiva, che l’accessibilità non è un privilegio ma rappresenta più comodità per tutti, che ognuno di noi ha caratteristiche proprie e una sua diversità funzionale che si coniuga con la capacità di adattamento e di resilienza che, specie durante la pandemia causata da Covid-19, sono stati messi a dura prova per l’imposizione delle misure di contenimento che hanno spento la luce sui più deboli.
MEDIARE LA COMPLESSITÀ: l’esempio del fenomeno dei rider
Quale giornalismo è possibile in un mondo in cui la realtà da mediare è complessa e spesso ambivalente, in cui manca un orizzonte condiviso, in cui è vero il tutto e il contrario di tutto? Le troppe informazioni rendono difficile non solo distinguere il vero dal falso, ma anche ciò che è importante da ciò che è marginale o addirittura manipolatorio.
La questione è ancora più insidiosa in un contesto in cui l’informazione è fruita soprattutto tramite le piattaforme, la mediazione è guardata con sospetto, le professioni del sapere hanno perso autorevolezza, i nuovi media spingono i lettori a crearsi nicchie d’informazione autoreferenziali, il dibattito è polarizzato e conflittuale.
Ce n’è abbastanza per annunciare l’apocalisse del giornalismo, se non fosse che l’accesso a una verità possibile e condivisa è fondamentale non solo per la democrazia, ma per orientare le scelte di ognuno di noi.
La tesi cerca di capire come mediare la complessità nel mezzo della crisi più grave del giornalismo, attraverso l’analisi del contesto e delle possibili vie d’uscita, ma soprattutto attraverso la costruzione di un dossier sperimentale sui rider, che cerca di mettere insieme più dimensioni e più registri.
Infodemia e pandemia: l’impatto dell’emergenza Covid-19 sul sistema dell’informazione in Italia
La pandemia da Covid-19 è rappresenta stress-test per il mondo dell’informazione: overdose comunicativa e bulimìa informativa stanno monopolizzando l’agenda dei media. Infodemia (quantità eccessiva di informazioni, spesso non verificate) e comdemìa (pluralità disordinata di voci nella comunicazione pubblica) hanno accelerato le trasformazioni in atto, con esiti anche imprevisti.
Mentre i media tradizionali hanno recuperato una nuova centralità informativa e la televisione si conferma punto di riferimento istituzionale per i cittadini, emerge una nuova coscienza critica nei confronti dei canali social, molto utilizzati ma considerati dai più poco affidabili. Alcuni studi, condotti a campione in Italia, Spagna, Stati Uniti e Canada, documentano come la maggior parte dei cittadini, pur facendo ricorso massiccio ai social, non si fidi della rete in tema di Covid-19 e gestione della pandemia e sia in grado di identificare le fake news. La reattività degli utenti delle piattaforme social appare diversa, più attenta e riflessiva, meno condizionata dai bias cognitivi, quando sono in gioco fattori decisivi come un’emergenza sanitaria o questioni di vita o di morte. L’informazione verificata e attendibile si rivela essere il primo solido argine alla disinformazione.
Il virus ha cambiato il modo di informarsi delle persone, conferendo centralità ai siti web ufficiali e alle opinioni degli scienziati. La comunicazione pubblica istituzionale ha guadagnato un nuovo protagonismo, diventando il punto di riferimento obbligato della dieta mediatica degli italiani, anche se la pluralità di voci, a volte partigiane, le incertezze altalenanti della scienza e dei decisori pubblici, il mancato coordinamento tra fonti istituzionali e la balcanizzazione dei ruoli tra istituzioni hanno creato confusioni e polarità, mettendo in luce la carenza di un piano informativo pandemico. Riportare al centro il sapere e il metodo scientifico nell’informazione sembra un punto di non ritorno. Serve una nuova alleanza, anche professionale, tra operatori dell’informazione e scienziati per definire almeno un ‘minimo comune teorico’ di conoscenze che consenta di sviluppare un dibattito consapevole e rispettoso dei dati ma anche delle diverse sfumature della realtà. La posta in gioco è la ricomposizione della frattura tra la ‘democrazia dell’informazione’ e ‘l’aristocrazia della conoscenza’.
UNA VITA IN OGNI “SENSO” – INCLUSIONI ED ESCLUSIONI DI UNA PERSONA NON VEDENTE
Ascoltare e toccare. Toccare e ascoltare. Quando ci si trova al buio è prima di tutto a questi sensi che bisogna aggrapparsi. Per le persone non vedenti o ipovedenti sono le porte di accesso alla vita quotidiana. Uscire di casa, prendere un mezzo pubblico, andare a lavorare, svolgere la propria attività professionale, coltivare hobby e passioni, rivolgersi allo sportello di un ufficio, usare la posta elettronica, navigare su internet, assistere ad uno spettacolo dal vivo o in televisione: sono azioni che non sempre e non ancora sono possibili in piena autonomia per le persone con disabilità visiva. Questo elaborato dà voce direttamente alla protagonista, ascoltando la sua storia di persona cieca, non tanto parlando di lei, ma parlando con lei. I suoi pensieri, le sue idee, le sue esperienze umane, professionali e artistiche dipingono uno spaccato di vita, di difficoltà, di successi, di scelte, che possono aiutare a mettersi nei suoi panni e comprendere situazioni simili alla sua e molto più diffuse e dimenticate di quanto si pensi. Completano il testo un’antologia di espressioni lessicali e alcuni suggerimenti musicali, tutti riferiti alla vista e allo sguardo.
Educazione Digitale d’obbligo per un rinnovato senso della comunità
L’argomento approfondito è quello dell’educazione digitale e dei suoi riflessi nella comunità. In particolare il lavoro ha preso in esame le giovani generazioni, i cosiddetti nativi digitali, che spesso utilizzano social e nuovi media senza conoscerne i pericoli. La diffusa convinzione che sapere come funziona lo strumento sia sufficiente ha portato a una sempre minore attenzione ai linguaggi (e spesso ai contenuti) dei messaggi veicolati dai social. Il supporto della letteratura sul tema aiuta a comprendere quali siano i meccanismi che i social media utilizzano per catturare e indirizzare l’attenzione e quali i meccanismi che muovono il pubblico a farsi catturare e indirizzare. Strategie che portano a confermare i propri bias e non a promuovere spirito critico e scelte consapevoli. Conoscere queste dinamiche può favorire una domanda, e un’offerta, di informazione che non indulge e non alimenta discorsi d’odio, esclusione, razzismo e discriminazione, minando la coesione sociale. La cultura digitale perciò come punto di partenza e di arrivo dell’educazione digitale potrebbe rientrare a pieno titolo in quell’educazione civica che ricorda ai più giovani non solo quali sono i diritti di ognuno di noi ma anche i doveri verso gli altri e la comunità.
Il ruolo e le responsabilità dei mass media nell’eliminazione dello stigma associato ai disturbi mentali
I pregiudizi e gli stereotipi che colpiscono le persone con psicopatologie hanno un impatto negativo sulla vita e sul benessere di queste ultime. Lo stigma rappresenta un vero e proprio ostacolo alla salute mentale perché limita l’aderenza alle cure dei pazienti e delle pazienti con disturbi psichici. Questo circolo vizioso, purtroppo, viene talvolta alimentato anche dalle fonti di informazione. Infatti, il modo in cui i media parlano di salute e malattia mentale contribuisce a plasmare, nel bene e nel male, l’immaginario collettivo sull’argomento; eppure, i giornalisti e le giornaliste sembrano spesso ignorare il loro potere e la loro responsabilità. Come viene sottolineato nella Carta di Trieste, infatti, il loro compito è quello di contrastare le principali forme di stigma legate alla malattia mentale proponendo narrazioni più inclusive delle persone che ne sono affette, utilizzando un linguaggio non lesivo della loro dignità e diffondendo informazioni accurate sul tema. Se, come dichiara l’OMS, “non esiste salute senza salute mentale”, è importante che la formazione dei professionisti e delle professioniste dell’informazione si basi anche sui risultati della letteratura scientifica che indaga i meccanismi sociali alla base dello stigma verso la malattia mentale.
Inclusione, giustizia sociale, democrazia: realtà o utopia?
Il momento storico attuale fotografa consuetudini figlie di retaggi culturali, stereotipi e false certezze che minano le più elementari regole su cui dovrebbe reggersi una società civile e inclusiva. Il riferimento comprende la scelta del linguaggio, le modalità con cui si accende il dibattito, prima ancora del confronto e sempre più spesso dello scontro, l’incapacità di elaborare un pensiero critico, la pratica di comodo di pensare e parlare per etichette e spicce equazioni. Il risultato è un caos informativo, e prima ancora culturale, in cui sembra essere di gran moda sentenziare senza conoscere, denigrare il “diverso” quale nemico da sconfiggere, alzare muri di ostilità verso tutto ciò che temiamo proprio perchè non conosciamo. La ricerca mette in luce i pericoli inisiti nelle generalizzazioni e nelle contrapposizioni tra un “noi” e un “loro” oggi tanto in voga, delineando al contempo le pratiche e i percorsi strutturati e prospettici intrapresi, anche se solo a macchia di leopardo, per invertire la rotta e costruire un Paese e una collettività in cui i principi di inclusione e coesione sociale vengano garantiti a tutti e non solo a quanti hanno la fortuna di vivere in territori governati da amministratori “illuminati”.
“A febbraio 2020 durante la Munich Security Conference il direttore dell’OMS definisce il momento che stiamo vivendo con il termine “infodemia”, affermando che le fake news si diffondono più velocemente e più facilmente del virus. Ma che cos’è davvero l’infodemia?
Nell’elaborato si vuole dare un senso a questa parola, la si vuole definire per non cedere alla tentazione di pensare che sia invincibile e inevitabile.
Si analizza come il concetto di “infodemia” esistesse ben prima del 2020, e come questo sia strettamente legato a doppio filo alle fake news.
L’elaborato è suddiviso in una parte introduttiva e tre capitoli, seguiti dalle conclusioni.
Il primo capitolo prende in esame le fake news, individuandone le varie tipologie e indagando perché si finisce col crederci; nel secondo capitolo si evidenziano gli effetti dell’infodemia (sulla salute pubblica, su quella fisica, su quella mentale, sullo stigma sociale e l’uso del linguaggio bellico); nel terzo capitolo ci si interroga su cosa si possa fare attivamente e quali errori di comunicazione si possano evitare per fermare la diffusione dell’infodemia.
Infodemia e fake news sono solo lo specchio del nostro tempo e si possono superare se si tende alla ricerca della verità. Insieme.”
Forza e debolezza dei media cattolici italiani
L’informazione religiosa cattolica non sta attraversando un gran bel momento. E non solo a causa della crisi che sta coinvolgendo tutti i media tradizionali. L’avvento di papa Francesco ha dato nuova linfa alla presenza della Chiesa nei media laici. Ma perché, allora, l’informazione cattolica tradizionale si è indebolita, come dimostra la chiusura di numerose testate e case editrici? La ragione, a detta di alcuni, pare debba ricercarsi in una scelta di campo a livello ecclesiale ben precisa: il primato della «carità economica» sulla «carità intellettuale». Un fenomeno (ben fotografato da Massimo Faggioli sul «Domani» del 26 ottobre 2021) che rivelerebbe una crisi di autorità della teologia del dialogo tra Chiesa e mondo avviata dal Vaticano II. La Chiesa sta dunque affrontando oggi il medesimo analfabetismo che tocca il mondo laico, aggravato però da un problema ideologico che coinvolge nuove e vecchie generazioni: un disprezzo verso il mondo intellettuale a favore di una «orgogliosa ignoranza» considerata da molti più vicina allo spirito originario del Vangelo. L’effetto complessivo è un’emorragia nel mondo dei media cattolici, che non pare destinata a fermarsi a breve. Nonostante vi siano alcuni settori che sembrano non essere toccati dalla crisi: quelli che propongono un cristianesimo semplificato. Che negano la complessità di una fede pensata a favore di un rapporto di stampo fideistico con il reale. Indebolendo in questo modo quella visione critica sul mondo, indispensabile per orientarsi all’interno di una cultura che pare non essere più al servizio dell’umano.
ETICA E INFORMAZIONE, diciamoci la verità
Nella attuale epoca globalizzata, disinformazione e misinformazione sono un flagello per l’autorevole e credibile professione giornalistica.
E’ necessario ritornare eticamente al vernacolo della buona, onesta, accurata e
deontologicamente corretta informazione. La necessità di sfuggire la palese
omologazione generata dalle interferenze e pressioni esercitate da interessi politici e finanziari, presente e riscontrabile in diversi organi di stampa e in alcune televisioni pubbliche. Riscoprire la dissertazione filosofica per riflettere sui contenuti e metodi per fare una buona informazione, per raccontare quello che c’è di vero, di buono e di bello nell’attuale società civile. Serve un sguardo per ritrovare le Virtù del giornalista; una “Verità” dei fatti e delle notizie, che vanno comunicati con imparzialità: le opinioni su di esse sono libere, ma né l’informazione, né l’interpretazione personale, oppure imposizioni ed obblighi editoriali, potrebbero mai separarci e allontanarci dal coerente rispetto dei “Diritti Aletici” e dal messaggio di verità e speranza, recentemente scaturito dalla città di Assisi e insito nelle “Beatitudini del giornalista”. Professionisti di una informazione eticamente applicata e presente nell’Agorà della comunicazione.
Mafie, media e fake news. Dall’omertà ai social network, stereotipi e leggende nella narrazione dei fenomeni criminali
Nessun Luogo – La vita è digitale
Come cambia il rapporto tra uomo e tecnologia? “Nessun luogo – la vita è digitale”, mette in fila racconti e storie sulla nuova dimensione digitale, dove sfruttamento e opportunità sono due lati dello stesso viaggio, quello che stiamo intraprendendo verso…il metaverso?
“C’è una crepa in tutto: è così che entra la luce”, afferma il cantautore Leonard Cohen in ‘Anthem’, frase presa a prestito in tante occasioni. Lo fa anche Jessica Bruder nella prefazione dell’inchiesta ‘Nomadland’, dove scopriamo i lavoratori stagionali dei magazzini e hub di Amazon negli Stati Uniti: si autodefiniscono “amazombies” e proprio da loro parte il racconto di “Nessun luogo”, inteso come scelta: tra esclusione volontaria o entusiastica immersione c’è un’altra strada?
La tecnologia che tanto polarizza il dibattito pubblico lascia intravedere queste crepe che fanno entrare la luce?
Parliamo di ‘gig worker’ dove l’algoritmo rappresenta, almeno inizialmente, un punto cruciale per poter lavorare e andiamo a conoscere l’esercito invisibile dei moderatori di contenuti. Incontriamo poi l’umano quasi robot, territori dove la disabilità sfida la tecnologia e cerca la bellezza, affrontiamo la solitudine digitale degli anziani tra l’inclusione e autonomia. Ed infine, la tecnologia che può essere riadattata, riutilizzata in chiave ambientale: un segnale che la pandemia ha aiutato ad evidenziare, come spiega, in conclusione, il filosofo Luciano Floridi.
Forme e pratiche del linguaggio e del comportamento ostile
“Forme e pratiche del linguaggio e del comportamento ostile (Delle storie, i frammenti)” è un’indagine dentro i linguaggi e le pratiche ostili che investono la nostra società, su storie e vicende di persone vittime di violenze e di molestie.
L’indagine si sviluppa in sei capitoli: dalla definizione del termine “frammento” ai fenomeni dell’organizzazione del lavoro – il mobbing, in particolare –, e alle proposte inclusive tese alla valorizzazione e al sostegno della persona.
Come ricorda Liliana Segre “coltivare la memoria è un vaccino prezioso contro l’indifferenza”, e un punto di riferimento fondamentale per la memoria – individuale e collettiva – è l’articolo 3 della nostra Costituzione che recita:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità, sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
E allo stesso modo fondamentale è l’articolo 21 della nostra Costituzione – “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure” -, e attorno alla definizione di “hate speech” (incitamento all’odio), quanto dichiarato dalla Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa il 21 marzo 2016:
“L’istigazione, la promozione, e l’incitamento alla denigrazione, all’odio e alla diffamazione di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, comprende varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale”.
Così, nel contesto sociale indagato – dai luoghi della socializzazione ai luoghi del lavoro – l’analisi si è focalizzata sul mobbing e le molestie nelle organizzazioni, attingendo dalle analisi di Milena Santerini (pedagogista, vicepresidente della fondazione Memoriale della Shoah di Milano e coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo di cui è il libro “La mente ostile. Forme dell’odio contemporaneo”) e di Marie-France Hirigoyen (psichiatra, vittimologa francese ed esperta di mobbing, autrice del volume “Molestie morali”).
In tal senso lo sviluppo di quest’indagine può essere un utile strumento di analisi sui temi delle ostilità – ne sono in parte testimonianza alcuni testi tra cui “Raccontare, informare e analizzare. L’odio in diretta nell’immagine di Burhan Ozbilici”; “Sul dolore e le sofferenze”; “Nessuno escluso. La fotografia come pratica inclusiva” -, ma anche come una modalità per prevenire e informare su abusi e disuguaglianze, discriminazioni e violenze che investono la nostra società.
L’ITALIA (OGGI) NON È UN PAESE PER VECCHI
L’attuale pandemia di Covid-19 ha messo a dura prova la società moderna e il suo stile di vita: le sicurezze che l’avevano accompagnata sinora, la globalizzazione, la rapidità degli spostamenti, il benessere a tutti i costi, hanno avuto una battuta d’arresto non indifferente.
Ma alcuni soggetti hanno dovuto sopportare la situazione e le sue conseguenze più di altri, portando in primo piano problematiche nascoste sinora “sotto il tappeto” o ignorate volgendo lo sguardo altrove: si tratta degli anziani e dei soggetti deboli.
Non si intende categorizzare una parte della società, poiché ogni individuo ha caratteristiche uniche, così come unici sono desideri, aspettative e problemi che accompagnano la sua esistenza. Si tratta però di ricercare e individuare un file rouge, ciò che accomuna tutti gli esseri umani: se aiutato dalla fortuna e dalla salute, ognuno di noi un giorno sarà anziano e si troverà ad affrontare ciò che la condizione di questa stagione della vita gli porrà davanti. Solo in quel momento si troverà di fronte a quello che il welfare del nostro paese avrà confezionato per permetterci di affrontare nel migliore dei modi la vecchiaia.
Col mio lavoro ho inteso analizzare lo stato dell’arte del welfare italiano in fatto di terza età, evidenziarne le problematiche, che spesso hanno portato all’esclusione sociale dell’anziano, e individuarne possibili soluzioni di inclusione, esaminando ciò che la letteratura di questi anni ci offre.
Il quadro che ne è risultato rappresenta un paese che, sulla carta ha cercato di creare progetti per garantire un esistenza attiva e dignitosa agli anziani di oggi, ma che nella realtà spesso utilizza metodi stereotipati, basandosi su “leggende metropolitane” o su “credo” non troppo realistici su ciò che l’anziano è oggi: un paese, insomma, che allo stato attuale delle cose non offre un esistenza degna di essere vissuta a questa fascia di età. Un paese che necessita di un cambio di marcia per diventare la nazione che ha sì una longevità da record, ma che a questo deve associare un welfare adeguato.
Un fenomeno tanto antico quanto a lungo – e colpevolmente – sottovalutato, considerato a volte poco più che un modo divertente (il termine bufala, istintivamente, non lascia trasparire inquietudine) per raccontare la quotidianità. La disinformazione é, invece, un fenomeno complesso, é un vero e proprio “sistema” votato a diffondere una percezione alterata della realtà e, come tale, richiede un approccio analitico e di studio adeguato e non circoscritto alla singola fake news. La vera difficoltà, infatti, non sta tanto nell’individuazione di una corretta definizione del termine quanto nell’effettiva e concreta riconoscibilità di una fake news. Non si tratta sempre e comunque di notizie false quando non inventate di sana pianta quanto, piuttosto, di contenuti che miscelano vero e verosimile, descrivono scenari plausibili e possibili, prendono a prestito “pezzi” di accadimenti reali e li innestano in contesti differenti da quelli propri, avvelenando così i pozzi della corretta informazione. Ma per questo veleno esistono antidoti ben precisi: intanto l’accuratezza – intesa come attenzione a fare bene una cosa – indispensabile per verificare ogni informazione, e poi il pensiero critico, la capacità cioè di affrontare la singola questione senza abbandonarsi a pre-giudizi, esplorando più sentieri, battendo le strade dell’inclusività. Operazioni queste che richiedono impegno e giusto tempo anche per evitare di cadere nel tranello di etichettare come fake news qualsiasi cosa che non collimi con il nostro pensiero, che non ci sia gradita, che sia per noi scomoda. Se così facessimo inevitabilmente tutto sarebbe fake news e, quindi, …nulla sarebbe fake news.
«Notizie di vita o di morte». Diritti an-negati
Migliaia di corpi giacciono sui fondali dei nostri mari. Sono gli «scomparsi», missing people. Mai più ritrovati, hanno perso la vita nei naufragi o gettati in acqua durante la traversata. Di loro si hanno pochi numeri, mai un volto, tanto meno storie.
I corpi, quando riaffiorano, vengono sottoposti a ispezioni. Si cerca di risalire a un’identità. Spesso rimangono dei «senza nome». Non si sa chi siano, da dove provengano, il lungo viaggio percorso. Non si hanno notizie di famiglie, affetti, comunità di appartenenza. Di questi uomini, donne, bambini, i familiari chiedono «notizie di vita o di morte» o almeno una tomba su cui piangere.
La civiltà di un popolo si misura da come tratta i vivi, ma anche i morti. Viaggio a ritroso nei luoghi, nelle narrazioni e tra i diritti che non fanno notizia: dai dispersi della I guerra mondiale alle fosse comuni dei Balcani; dal cimitero di Merna dove la calce bianca, che tracciò il confine tra Italia e Slovenia, divise a metà anche le tombe all’isola di Santo Stefano dove, a picco sul mare, si trovano i resti di condannati all’ergastolo in vita e pure in morte; fino a Lampedusa, dove il «senza nome» è identificato con un numero, e a recenti ceppi verdi degli «NN», i caduti senza nome della rotta balcanica.
Dalla musica negli smartphone un esperimento di interazione ed inclusione.
In questo elaborato per il corso di alta formazione “La passione per la verità: come informare promuovendo una società inclusiva”, si presentano i tratti principali di Stregoni, il progetto di musica e migrazione, curato dai musicisti Johnny Mox (Gianluca Taraborelli) e Above the Tree (Marco Bernacchia).
Si ripercorre parte del viaggio europeo nato da un laboratorio musicale a Trento e che diventa, nel 2020, il documentario, per la regia di Joe Barba: Senza Voce. La storia di Stregoni. Qui è valsa una sola regola: la musica dentro al telefono. Una traccia musicale nello smartphone di uno dei partecipanti diventa, infatti, il loop su cui una band creata al momento inizia a suonare, cantare, esprimersi. Ogni concerto, in ogni città, è diverso, perché le persone cambiano, così come le interazioni tra culture e le connessioni attraverso la musica. Un progetto che, di pari passo alle lezioni del corso, affronta tematiche complesse con originalità, che abbraccia le incertezze e le difficoltà per creare qualcosa di nuovo.
“Venezia per tutti-Vincere su 4 ruote tra ponti e pregiudizi” è il titolo scelto per parlare di disabilità motoria, anche semplicemente temporanea, nella mia città natale. Venezia appunto. 121 isole e isolette collegate da piu’ di 400 ponti con i suoi 160 canali. Città tanto bella per la sua unicità quanto, talvolta, ‘scomoda’ da girare e viverci proprio per la sua caratteristica dominate, l’acqua. “Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi; Se sembra impossibile allora si può fare”, il sommario. Racchiude il senso di tutto lo scritto. Valore, sacrificio, abnegazione, del gusto di stare bene con sé stessi e con gli altri. Due distinte frasi dette da due persone diverse; sebbene unite dalla stessa passione per la vita e la tenacia del dolore. La prima è quella dell’astrofisico inglese Stephen Howking, l’altra della prima schermitrice con disabilità al mondo a gareggiare con quattro protesi artificiali. L’italiana (e veneta) Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio, per tutti semplicemente Bebe. Genio della fisica e grande divulgatore scientifico il primo, e costretto da quando aveva 20 anni prima ai tutori, poi alla sedia a rotelle per via della sclerosi laterale amiotrofica. Howking nel corso della sua vita studiando lo spazio e i buchi neri arriva a formulare una teoria unificata sulla formazione dell’Universo, la teoria del Tutto. Bebe, dall’età di 11 anni scampa ad una meningite fulminante per una scelta drammatica quanto salvifica dei medici, decidendo di amputarle tutti e quattro gli arti. Eppure Bebe crescendo vince e stravince contro i pregiudizi e la commiserazione inanellando successi e vittorie. Nella vita e nello sport, dove colleziona titoli Nazionali, Europei e piu’ che Mondiali, Olimpici! L’ultimo: l’oro nel fioretto individuale alle Paraolimpiadi di Tokio 2020, giunto insieme a un altro riconoscimento: la dedica di un asteroide. Bebe come Howking sono riusciti ad andare oltre sé stessi, abbattendo di fatto ogni tipo di barriera: fisica e mentale. Al pari del collega giornalista del Lido di Venezia Lorenzo Mayer: cronista attento, cuore di scout forte e appassionato, ‘Lollo’ dove va porta il sole. Almeno per me! E poi c’è Giampaolo Lavezzo, veneziano, 76 anni nato con una tetraparesi spastica. Da oltre 50 anni si muove tra il noto e l’ignoto della burocrazia per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Alle spalle una lunga storia di battaglie sociali. Da me ribattezzato il viaggiatore senza valigia alla Jules Verne. Al centro del mio studio, seppur parziale, l’inclusività di Venezia e della Regione del Veneto con approfondimenti sull’applicazione da un punto di vista legislativo ed economico dello sviluppo sostenibile, partendo dagli obiettivi posti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite come programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità. Pagine di storie da raccontare perché rigenerano il pensiero. Hanno una visione. Guardare non piu’ con un occhio da extraterrestre ma per vedere cose fino ad ora invisibili, perché non le si conosceva. Perché la vita prolifera dove c’è instabilità ed evoluzione. Lo impariamo giorno dopo giorno. Perché la bellezza se ne infischia di chi non sa vederla. E bisogna avere un po’ di fiducia nel futuro. Me lo diceva di continuo Rachele Sfriso, di Mestre. Aveva 26 anni. Son già 12 anni che non c’è piu’. Raccontare di lei, significa per me restituirle la visione di una società nella quale riponeva tante speranze. Una società piu’ giusta ed equa che va oltre lo stigma e l’indignazione e si adopera in azioni di aiuto concreto. Commoventi ed emozionanti.
Negli ultimi trent’anni il giornalismo in Italia (e non solo) ha subìto un’ondata impetuosa di cambiamenti e ne è rimasto travolto. Le innovazioni tecnologiche hanno spazzato via professionalità che concorrevano all’uscita del quotidiano (dal fotografo, al grafico, al correttore di bozze) e modificato altre professionalità nel settore radiotelevisivo. Internet ha fatto il resto, cambiando i ritmi, creando un flusso ininterrotto di notizie, vere o false, imponendo riorganizzazioni in ogni tipo di redazione. Il crollo progressivo e costante dei giornali cartacei ha prodotto la chiusura o il ridimensionamento di Testate. A cascata, l’Inpgi non ha avuto più i numeri per reggersi in piedi, tanto il divario tra i pensionati e i giornalisti ancora in attività. Quanti, ancora, sono i professionisti impiegati ufficialmente come collaboratori e pagati una miseria a pezzo. Accadeva anche sul finire dello scorso millennio ma allora quello sfruttamento era più facilmente sopportabile perché quel sacrificio veniva quasi sempre ripagato dall’assunzione a tempo indeterminato, ormai solo una chimera.
Prolificano gli “uffici stampa”, nelle redazioni dei giornali arrivano comunicati, filmati, dichiarazioni, interviste preconfezionate e pronte per essere pubblicate. Ciò ridimensione ulteriormente il peso contrattuale di fronte a editori che potrebbero ormai fare a meno di noi, o quasi.
E il “quasi” è l’unico mezzo di sopravvivenza che ci rimane, prima dell’estinzione della specie. Fin quando riusciremo ad offrire un prodotto di qualità, un articolo o un servizio che è frutto di verifica, di analisi del contesto, che è fatto di parole giuste e ponderate; fin quando avremo al nostro fianco il rispetto della deontologia e della coscienza, forse riusciremo a sopravvivere. Almeno per un po’.
WEB, LA CORTINA SPINATA Gli ostacoli digitali che rendono tortuosa la comprensione della verità.
La comunicazione globale con i suoi miliardi di miliardi di dati che circolano istantaneamente in tutto il mondo ha aumentato le complessità delle informazioni. Siamo dentro un oceano burrascoso in cui si può trovare il tutto e
il niente, lo ying e lo yan, il chiaro e l’oscuro.
In questo turbinoso mondo della comunicazione digitale sempre in continua evoluzione, esiste una “cortina spinata” che intrappola con l’inganno le fondamenta della consapevolezza corretta della realtà. Attraverso le manipolazioni delle informazioni, da quelle inconsapevoli per errori di valutazione a quelle dolose per generare false notizie fino ai professionisti delle intrusioni malevoli rende irto di ostacoli digitali la comprensione della
verità. I trabocchetti sono ovunque, spesso difficili da riconoscere in una prima lettura affrettata, ma sono pervasivi, veicolati dagli stessi social network che hanno il bisogno di ingaggiare continuamente gli utilizzatori per stimolare traffici pubblicitari che generano profitti.
Di Internet non possiamo più farne a meno, ma è necessaria una educazione e una formazione per rendere la rete inclusiva a tutti senza che discriminazioni e falsità soffochino la nostra libera fruizione delle informazioni.
note a parte
Le tecnologie nell’arco di due secoli dalla nascita del telegrafo a filo del 1844, passando per le trasmissioni radio di Marconi nel 1896 hanno permesso di essere istantaneamente connessi con tutti e tutto in pochissimi secondi.
Il codice morse in punti e linee si trasforma in codice binario 0-1 per consentire ai computer di elaborare dati e trasmettere in chiaro nuove informazioni.
Con internet si sono sviluppate le condivisioni simultanee di messaggi, video, musica e le videoconferenze di gruppo che sono ora una realtà quotidiana.
La libertà di espressione che ogni nazione democratica garantisce come un diritto inalienabile dell’umanità sottolineato da Carte Costituzionali e Trattati internazionali ha anche un suo risvolto problematico, in quanto aumenta la diffusione di notizie non verificate da nessuno, estrapolate da conversazioni o interventi pubblici o manipolate ad arte per generare violenze verbali o per
agire contro istituzioni pubbliche e democratiche che si ritengono oppressive.
Teatro dentro le mura: un varco verso una società inclusiva.
Varcare l’ingresso di un carcere per assistere ad uno spettacolo teatrale è un’azione che comporta un’assunzione di responsabilità che si riflette sullo spettatore in relazione ai detenuti – attori. Non si tratta solo di esercitare la semplice responsabilità da spettatore ma anche e, soprattutto, come cittadino che si deve confrontare con persone in regime di detenzione superando ogni forma di pregiudizio e /o stereotipo. «(…) Un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena, secondo i limiti delle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di lavoro teatrale. Spesso i limiti sono diventati armi vincenti (…)».[1] L’articolo 47 della Costituzione italiana prevede che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Un obiettivo fondamentale nel percorso trattamentale dove «il teatro in carcere è apprendimento e coinvolgimento non solo di docenti, educatori, ma anche del personale di vigilanza carceraria. La relazione che si viene ad instaurare tra il regista e i detenuti è significativa sul piano della fiducia reciproca, del legame che si crea in un percorso condiviso. Altrettanto importante è instaurare un rapporto di fiducia con l’amministrazione carceraria. Il teatro non è solo attività di svago, ma svolge un importante valore terapeutico, agisce nel profondo e implica un percorso di consapevolezza che è individuale e collettivo allo stesso tempo. In questo senso deve essere considerato il valore dell’esperienza teatrale, come mezzo per imparare la dimensione sociale e collettiva, quando questa sia stata compromessa o ferita dall’azione collettiva». [2]
Una pratica sempre più consolidata in molti istituti carcerari, differenziata a seconda della tipologia: Case Circondariali dove i detenuti scontano pene brevi, Case di Reclusione, REMS (residenze per le misure di sicurezza per soggetti in cui è necessaria una custodia per motivi psichiatrici oltre che giudiziari), in cui l’attività laboratoriale del teatro incide profondamente su chi lo pratica. Il tema affrontato si sofferma sull’importanza dell’attività teatrale condotta in molti istituti di pena come metodo che favorisca l’inclusione sociale, tra l’istituzione carceraria e la società civile, con particolare attenzione al risultato, riscontrato nella diminuzione della recidiva da parte dei detenuti che si dedicano al teatro, dove si attesta al 6%, rispetto al 65% di chi non ha mai partecipato, e una volta uscito, ritorna a commettere reati.
- Minoia in Il teatro in carcere, l’evoluzione di un fenomeno https://frontierenews.it/2017/10/
- Blasi in Il teatro in carcere come veicolo di integrazione in epale.ec.europa.eu 2016
“La solitudine di Omran, rifugiati dal Pleistocene ad oggi” di Giorgio Romagnoni è un lavoro di rielaborazione sul diritto d’asilo. Esso è stato inizialmente concepito con l’intento di sviluppare basi teoriche da affiancare a quanto veniva coltivato in campo professionale negli anni 2015-2020 in qualità di operatore assistente legale di richiedenti asilo e rifugiati. Questo prodotto sarebbe servito per conferenze ed incontri formativi, a cui si veniva solitamente chiamati per svolgere attività di sensibilizzazione riguardo alla migrazione forzata e all’impegno nell’accoglienza. Sin da subito, però, questo studio dell’evoluzione normativa ha richiesto un continuo aggiornamento non solo per la costante strumentalizzazione politica e la conseguente erosione dei diritti dei migranti, caratteristica forse non solo di questi ultimi anni; ma anche perché entrando nella profondità di questi temi si aprono veri e propri vasi di pandora su argomenti molto impegnativi: la rielaborazione di razzismo e colonialismo, sguardi sulla geopolitica, fino a toccare forme ataviche dell’umano quali il diritto di ospitalità e la xenofobia.
La par condicio impossibile
Dove finisce la libertà di espressione del proprio pensiero? A fronte di movimenti e partiti che si richiamano, a volte apertamente, a ideologie antidemocratiche, basandosi per farlo – paradossalmente – sui diritti garantiti proprio dalle democrazie, in questo lavoro si sono voluti richiamare i vincoli e i confini di tale libertà. E cioè le norme che vietano di negare i fondamenti stessi della convivenza civile, effettuando inoltre una ricognizione sulle interpretazioni di tali norme offerte nel tempo dalla giurisprudenza, italiana ed europea. Dalla sentenza con cui il tribunale di Roma nel 2020 ha respinto il ricorso contro l’oscuramento delle pagine Facebook di Forza Nuova, perché la limitazione non violava la libera manifestazione del pensiero politico, alle numerose pronunce della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Per scoprire che “Un discorso politico che promuove l’odio e la discriminazione (…) legittima le autorità nazionali a limitare la libertà di espressione” (Corte Cedu, sentenza caso Féret). La ‘par condicio’ intesa come presunto spazio neutro, senza vincoli e senza norme, in cui veicolare anche operazioni di banalizzazione o depotenziamento dei valori democratici, rischia di tradursi in un inganno che può e deve essere smascherato. In questo, il giornalismo ha un ruolo fondamentale che può esercitare solo se ha gli strumenti per farlo. La proposta di una ‘Carta dei diritti dei giornalisti’ perché tempo, preparazione, cura e dignità retributiva siano riconosciute come variabili non negoziabili per esercitare consapevolmente il compito dell’informazione come sentinella della democrazia.
Se c’è un terreno particolarmente fertile per le fake news, è la guerra. Lo scontro bellico fa nascere e propagare con grande facilità le false notizie. Succedeva durante il primo conflitto mondiale, come ha studiato attentamente Marc Bloch (sua la citazione dell’antico proverbio tedesco, “Arriva la guerra, bugie a iosa nel paese”). E succede anche oggi, nell’epoca Covid. Di fatto, proprio la pandemia è stata più volte descritta prendendo a prestito il linguaggio bellico e militare.
Partendo dal meccanismo di nascita e propagazione delle fake news descritto da Bloch, si arriva ad analizzare alcune false notizie di ambito sanitario-pandemico sorte nell’ultimo anno e mezzo, con un focus particolare sul cambiamento del linguaggio e in particolare sull’armamento d’odio (hate speech) che costituisce in molti casi gran parte del dibattito social sul tema Covid. Due i casi, messi a confronto: la descrizione della pandemia da parte di un medico dell’Ulss 1 Dolomiti, attraverso un linguaggio inclusivo; e gli attacchi conseguenti ad alcune iniziative della stessa Ulss 1 Dolomiti finalizzate a promuovere la campagna vaccinale, attacchi che partono dal recepimento di diverse fake news.
Algoritmo e Intelligenza Artificiale: l’algoritmo può rendere l’intelligenza artificiale più intelligente, più ricca e competitiva di quella umana? Gli algoritmi, perciò, sono il nucleo centrale di questa breve tesi. Il metodo che ho utilizzato per definire l’algoritmo, l’intelligenza artificiale e le loro applicazioni è quello crono-socio-linguistico l’algoritmo. Dopo una descrizione storico-filosofica, mi sono addentrato in ambito matematico-tecnologico e ho esemplificato cos’è un algoritmo nella quotidianità: ad esempio la pasta frolla. Ho continuato lo studio degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale (Alexa) sia in ambito storico che, per quanto riguarda la contemporaneità, in ambito socio-medico-sanitario. In particolare ho focalizzato la ricerca medica per la salute. Ho sottolineato gli aspetti positivi degli algoritmi, uno fra tutti, la diagnosi precoce di malattie come Parkinson, Altzeimer e Autismo. Diagnosi che permette a persone come noi, di essere incluse ed essere inclusive per loro stesse e per le altre. Nell’ambito della salute gli algoritmi, e conseguentemente l’A.I. sono utilizzati per far fronte alle patologie che rendono fragili e sole le persone più grandi. Ho concluso con una sottolineatura e una sfida del prof. Quartierani che dà un brivido di emozione o di sgomento.
Di emozione perché si aprono nuove possibilità, nuovi panorami di ricerca e di sviluppo ma di sgomento perché le possibilità e le opportunità sono tante e tali che, forse, tra 50 anni come sottolineava Raymond Kurzweill, esisterà davvero un computer, un laptop, un’alexa che non solo accoglierà le nostre richieste della spesa ma detterà le proprie richieste agli esseri umani e magari indicherà cosa è bene o non è bene fare.
Non sono entrata nel merito degli aspetti negativi che esistono: quali la discriminazione algoritmica di genere, la discriminazione lavorativa ed etica. Questa decisione è stata frutto di molta riflessione perché oggi più che mai abbiamo tutti necessità di comunicazioni positive. Infatti, ho descritto come gli algoritmi diventino strumenti di inclusione, specialmente in ambito medico-socio-sanitario: oggi, più che mai, necessitiamo di inclusione e di divenire un mondo di pari e la tecnologia, di cui scrivo, può aiutarci a riprendere una dimensione umana importante: noi stessi.