25 aprile in Ghetto:«Venezia si unisca a proposte concrete di un tavolo della pace»

In Sindacale by SGV Redazione

«Ora, anche noi coltiviamo un sogno: che Venezia si unisca a proposte concrete di un tavolo della pace che vanifichi l’ansia di distruzione che sta attraversando il mondo. Un’utopia, ma in tempi di odio e di devastazione conserviamoci almeno la libertà di sognare».

Così si conclude il discorso pronunciato da Dario Calimani, presidente della Comunità ebraica di Venezia, il 25 aprile in campo del Ghetto Novo, a conclusione del Percorso della memoria, organizzato insieme alle Associazioni partigiane, in primis l’Anpi 7 Martiri, l’Isever, il Comune. C’era anche il Sindacato giornalisti Veneto, come ogni anno, a ricordare che la libertà di stampa dà voce a tutte le altre libertà e che l’informazione è un bene di tutti e come tale va tutelata e preservata da attacchi vecchi e nuovi. Leggi e querele bavaglio, censure di stato, minacce fisiche e verbali, campagne di odio, precariato selvaggio, sfruttamento, lavoro poco dignitoso. Informazione libera e indipendente, che trova il suo fondamento nell’articolo 21 della Costituzione. Costituzione che deve essere progetto politico di giustizia sociale.

Il messaggio di Calimani è chiaro: non prende scorciatoie o omissioni, va dritto al cuore del dolore e della sofferenza che sottendono le celebrazioni di questa Festa della Liberazione.

«Si cercano ogni anno, nei valori rappresentati dal 25 aprile, messaggi per il presente. È giusto, per un popolo che ha raggiunto la libertà e la democrazia, auspicare libertà e giustizia anche per tutti i popoli della terra. È giusto e lo ribadiamo con convinzione. È anche giusto guardare le cose del mondo con sguardo disincantato, evitando letture strumentali di singoli eventi storici, per osservarli nel complesso della loro storia. È giusto chiedersi quali parti, contrapposte e con contrapposti interessi, abbiano concorso e concorrano a creare le instabilità di cui siamo testimoni in questi giorni. Non possiamo limitarci ad affermare posizioni a contrasto per riprodurre conflittualità e odio. Se davvero vogliamo batterci per la pace,  – continua Calimani – non serve schierarsi dietro il colore di una bandiera, qualsiasi essa sia, magari travisandone i valori. Bisogna invece costruire possibilità di incontro e di dialogo. Avvicinare e non distanziare. Studiare e spiegare, anziché sobillare e istigare. Costruire ponti e non scavare voragini.
La cultura, le arti, e le università in primis, questo dovrebbero insegnare e favorire, anziché marcare e accrescere le distanze, come purtroppo sta avvenendo in questi giorni. Di cattivi maestri, in Italia, ne abbiamo già avuti a sufficienza, il paese l’ha pagata e ne serbiamo ancora l’amaro ricordo.
Per la nostra Comunità questo 25 aprile è di una tristezza infinita. Per le violenze e le sofferenze che percorrono il nostro tempo, da una parte e dall’altra. Politiche del conflitto le cui vittime sono i popoli. Noi denunciamo il fascismo, di ieri e di oggi, e ci rendiamo conto con angoscia che l’antisemitismo, che con recrudescenza inattesa sta attraversando il mondo intero, prende strade che mai avremmo previsto. Arriva in forme mediate e subdole e si avvale di ideologie che distorcono tempi e movimenti, invertono cause ed effetti, denunciano comprensibilmente la violenza di una parte e silenziano incomprensibilmente il terrore di un’altra. Agli scontri sul campo si aggiunge la guerra delle news e la loro contraffazione del reale.
Sono giorni, questi, in cui ci sentiamo più soli del solito. Dei vecchi amici, alcuni ci sono vicini, altri ci schivano o ci guardano con sospetto, con altri ancora condividiamo gli eufemismi.
Per noi ebrei, Venezia è stata nei secoli terra di vita segregata e costretta, ma è stata vita, e ci ha consentito di crescere e di godere infine del bene della libertà, mentre altrove vigeva il sopruso e la discriminazione anche violenta. Venezia è stata il modello illuminato della convivenza fra diversi, diversi fra di noi, all’interno, e diversi dal mondo che ci circondava fuori dal Ghetto».

Non può essere fuori moda parlare di fascismo

«È importante che oggi, fra noi, ci siano il Prefetto Darco Pellos, il Questore Gaetano Bonaccorso e, come ogni anno, il Sindaco Luigi Brugnaro. È importante che a Venezia la presenza delle più alte cariche istituzionali il 25 aprile sia chiara e inequivocabile. Perché il 25 aprile è il giorno della nostra Liberazione e del ritorno alla democrazia dopo il lungo regime dittatoriale che ci ha reso alleati del nazismo, ha trascinato il paese in una guerra sanguinosa, ha reso norma la criminalità istituzionale, ha discriminato i suoi cittadini, ha sterminato popolazioni di paesi illegittimamente colonizzati. Non basta la bonifica delle Paludi Pontine a compensare il male dispensato a piene mani dal fascismo.

Il percorso del corteo commemorativo si conclude ogni anno in questo Campo di Ghetto non perché si debba rendere omaggio alla Comunità ebraica, ma perché questo è il Campo da cui fascisti e nazisti hanno deportato 254 cittadini italiani, veneziani di religione ebraica. Ne sono tornati otto, devastati. Tutti gli altri sono rimasti ad Auschwitz, gassati e passati per il camino.

Ma non siamo qui per un ripasso di storia. La storia la scriviamo o la leggiamo sui libri. Siamo qui perché la storia sia la nostra memoria, e rimanga ben radicata dentro di noi. È la memoria che cerchiamo di trasmettere ai nostri figli, perché riproduca in loro spirito etico e di giustizia. Ed è la memoria che ci è stata consegnata il valore che ci spinge a ricordare la storia per riconoscerne gli errori e non ripeterli.

È impossibile, e sarebbe immorale farlo, non pronunciare in questo Campo di Ghetto, almeno il 25 aprile, la parola ‘fascismo’, perché è stato il fascismo a portarci qui, con i lutti nostri e di tutti coloro che hanno pagato con la vita il desiderio di libertà e di giustizia. Anche a loro dobbiamo se oggi possiamo celebrare e festeggiare liberi, e a loro dobbiamo se si è salvata l’anima del paese.

Non può essere fuori moda parlare di fascismo.
Non possiamo dimenticare che è stato il fascismo a rendere l’Italia il nostro persecutore, persecutore dei suoi stessi cittadini. Ci ha costretti a nasconderci, a fuggire come se fossimo delinquenti latitanti, ci ha consegnato ai carri bestiame diretti ad Auschwitz.
Quest’anno è il centenario dell’assassinio Matteotti. Se non si ricordano le vittime – da Gobetti ad Amendola, ai fratelli Rosselli, a Leone Ginzburg – se non si ricordano le stragi delle Fosse Ardeatine, di S. Anna di Stazzema e di Marzabotto, se non si ricordano i campi di confino e i campi di sterminio, allora si cerca di dimenticare le responsabilità, si coprono i carnefici e i loro complici, come ci si è sforzati di fare per ottant’anni. Il silenziamento della memoria porta con sé il rischio che sulle ceneri di una storia distorta si creino le premesse per un infausto ritorno.

Ma non si può costruire una società civile sulla base di un incessante scontro ideologico. Il dibattito sul fascismo va chiuso una volta per tutte con il riconoscimento inequivocabile, da parte di tutti, a destra e a sinistra, dei suoi crimini. Criminalità di stato.
Preoccupa l’impronunciabilità della parola fascismo, oggi, e preoccupa che si pensi che la pregiudiziale antifascista sia divisiva, perché è proprio nell’antifascismo che si dovrebbe riconoscere l’elemento costitutivo, condiviso, della nostra storia. Da destra a sinistra, attraverso tutte le possibili sfumature del pensiero politico, l’unico denominatore comune per un paese civile pacificato dovrebbe essere l’indiscusso riconoscimento della spietata scelleratezza e della criminale ideologia del fascismo, per affermarne l’irripetibilità. Ancora oggi, invece, c’è chi preferisce banalizzare ferocia e delinquenza, e c’è chi preferisce esaltare gli ideali dei giovani repubblichini.

A ispirare le mie parole non è un ideale di parte, come mi è stato rimproverato in altra occasione da un autorevole esponente di partito, quanto la storia vissuta sulla pelle della mia famiglia, della mia comunità e del mio paese, che è l’Italia, una storia che ci ha insegnato a vigilare e a riconoscere da lontano i segnali di pericolo. Abbiamo sviluppato sensibili anticorpi».

 

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