Perché è accaduto il Vajont? Per il prevalere sull’homo sapiens e solidalis, dell’homo oeconomicus che interpreta il progresso come mero profitto – quasi sempre di pochi – a scapito – sempre, senza il quasi – dei molti, in particolare dei poveri e degli indifesi? Laura Nota, professoressa ordinaria di Psicologia dell’inclusione (Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata) dell’Università di Padova e direttrice del corso di alta formazione attivato da Unipd e Federazione nazionale della stampa italiana, non dà una risposta, suggerisce un quesito che rimanda a una possibile chiave di lettura. Lo fa nell’ambito della “riflessione” – così come l’ha definita la moderatrice Monica Frapporti, vicesindaca di Borgo Valbelluna – che sullo sfondo della tragedia del 9 ottobre 1963 mette a confronto due “grandi firme”, così distanti e antitetiche pur nella loro “bellunesità”, come furono e restano Dino Buzzati e Tina Merlin.
Origini borghesi che ammiccano alla nobiltà, quelle di Buzzati, che gli consentono un cursus honorum verso la laurea in giurisprudenza a Milano, dove di fatto cresce e risiede stabilmente e dove poco più che ventenne entra al Corriere della Sera. Origini contadine, umilissime, per Merlin che appena tredicenne, costretta a interrompere la scuola, si ritrova pure lei a Milano, ma per fare la serva in una delle famiglie “bene” e mandare i soldi ai genitori; situazione rispetto alla quale si ribella scappando di notte, per tornare alla casa sulla Marteniga a Trichiana.
Un prescelto da una parte, una predestinata dall’altra? In mezzo non c’è un ring, ma la catastrofe più grande dell’era moderna. Provocata dall’uomo (o dall’homo oeconomicus, la sostanza non cambia).
Siamo a Mel, in una della sale di Palazzo delle Contesse, in platea più di un centinaio di persone, per la gran parte giornalisti: l’incontro offre la possibilità di maturare crediti per la formazione obbligatoria.
In tale contesto cosa c’entra la professoressa Nota? Il suo ruolo è di inquadrare il contesto, di condividere alcuni schemi di riferimento. La diga si costruisce (vien su, per usare una terminologia da Nordest) negli anni del “boom”. Terminata la guerra, si ha l’impressione che sia iniziata una nuova era. Accanto al miracolo economico si affaccia anche il sogno che la società possa azzerare disuguaglianze, discriminazioni, ingiustizie. Su tutto prevale però l’idea che lo sviluppo sia sostanzialmente tecnologico e scientifico, disancorato dal rispetto dell’ambiente e della natura intesa come consortium umano e sociale.
Nota parla sì di antropocene ma richiama anche il concetto di “capitalcene”, facendo un salto temporale di sessant’anni e riportando il Vajont a oggi: cosa c’è di uguale? O meglio cosa c’è di diverso? «Passiamo di crisi in crisi, di mille morti in mille morti» ragiona con apparente distacco. Di uguale c’è l’imporsi del medesimo “uomo economico” diventato più spietato, più cinico, più vorace. Di diverso c’è un ecosistema al collasso – inquinamento, siccità, cambiamento climatico – e una umanità più frammentata, più disperata, più devastata, più povera, incapace di far prevalere l’ “uomo sapiente e solidale”, incapace di indignarsi e di autoorganizzarsi. Siamo nella società della vulnerabilizzazione.
Cosa possono fare i giornalisti? Narrare o informare? Meglio la seconda. Nota punta sul compito similare che hanno tutti gli appartenenti alle cosiddette “professioni della conoscenza” e cioè coltivare e praticare il pensiero critico che permette di “vedere lungo”, di smascherare la “dark side” insita nei fenomeni che condizionano insieme alla nostra la vita di tutte e tutti.
Si deve faticare, studiare, confrontarsi. Per essere innanzitutto liberi: da pregiudizi, da stereotipi, da banalità.
Il giornalista non può esimersi, tanto più che informare è un diritto-dovere costituzionale, indicato fra i pilastri della democrazia.
I giornalisti allora possono costruire un mondo migliore?
La risposta di Tina Merlin sarebbe stata sì. Non ha dubbi Adriana Lotto, biografa della giornalista e presidente dell’Associazione culturale a lei intitolata.
Merlin nel 1963 ha 37 anni, e da circa dieci fa la corrispondente da Belluno per l’Unità, il giornale del Partito Comunista cui Merlin è iscritta. «Un giornale povero che parla dei poveri la cui condizione intende cambiare, uno strumento affinché quello che avviene sul territorio diventi fatto politico, non in senso ideologico ma per un senso di giustizia sociale ed equità» spiega Lotto. Che subito puntualizza: «Tina Merlin non è mai stata ideologica, scrive ciò che è, non ciò che pensa possa essere: mi riferisco agli espropri forzosi dei terreni degli ertani, all’inizio dei lavori della diga senza autorizzazione, a quello che succede dopo, alle commissioni di collaudo che mandano relazioni addomesticate al Ministero dei Lavori pubblici redatte dalla Sade stessa, commistione di funzionari pubblici e professionisti al soldo della Sade».
Lotto condensa la figura di Merlin con la definizione della “voce del territorio”. Da oscura cronista di provincia è stata l’unica a mettere in guardia contro il prodigio dell’ingegneria votato a candidarsi quale impianto idroelettrico da primato mondiale.
Sì, Tina Merlin era sola, come ebbe a dichiarare Giorgio Lago, compianto direttore del Gazzettino, «e in democrazia è difficilissimo essere soli».
La cifra della cronista di razza, Lotto la individua in quelli che definisce tre prerequisiti per intraprendere il mestiere che per Merlin è tutt’uno con la passione: essere nata contadina come quasi tutta la gente di montagna, sapere cosa significa vivere di stenti, di solitudine, gli uomini all’estero, le donne a casa e sul campo; nutrire fin dall’infanzia un forte sentimento della terra che si lavora e della terra che si manipola; essere stata giovane partigiana, staffetta a 17 anni e una volta finita la guerra porsi staffetta nella guerra che la povera gente combatte ogni giorno, l’emigrazione, lo sfruttamento, il benessere che scarica sui montanari i costi. Merlin sceglie da che parte stare. In questa accezione è ancora partigiana, perché il giornalista come sostiene l’ex direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, nella prefazione al libro “Aver cura del vero”, (Ediciclo editore) deve essere partigiano e lo deve dichiarare.
Merlin dunque che «si fa voce collettiva della comunità di Erto che si auto-organizza per difendersi». E paga questo suo schierarsi a fianco dei montanari contro i poteri forti condensati nella Sade. Allora come ora, arriva la denuncia – i bavagli alla stampa, le querele temerarie che continuano a minare la libertà di informazione – e il processo, siamo nel 1959, per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico.
Magari fossero state false quelle notizie, viene da dire oggi. Merlin svolge il suo lavoro d’inchiesta con tutti i crismi. Come sottolinea Monica Andolfatto, segretaria del Sindacato giornalisti Veneto e componente della giunta della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) che proprio quest’anno ha voluto lanciare il primo Premio sul giornalismo d’inchiesta territoriale dedicandolo proprio a Tina Merlin.
Merlin si guarda attorno, vede che il paesaggio cambia con la costruzione di dighe, va sul posto, raccoglie la voce della gente, i timori, le paure. Ma non si limita a questo. Verifica i fatti e lo fa con “fonti aperte” e “fonti coperte”, confronta i dati, cerca le prove. Fa la cronista d’inchiesta. E lancia più volte l’allarme. Inutilmente.
«Non ho fatto abbastanza» si rimprovera all’indomani della strage. E si indigna venti anni dopo, nel 1983, per la “rimozione” del e sul Vajont. E ragiona. Quando si sposta l’attenzione sulla solidarietà e sulla compassione, la si distoglie dalle reali responsabilità che hanno nomi e cognomi.
Una mattinata di riflessione dunque, promossa il 14 ottobre dall’Associazione Villa Buzzati S. Pellegrino il Granaio in collaborazione con il Centro Studi Internazionale Dino Buzzati di Feltre, il Comune di Borgo Valbelluna e il contributo della Provincia di Belluno, del Comune di Longarone e della Fondazione Vajont.
Cinque giorni dopo l’anniversario e la visita al cimitero di Fortogna e poi alla diga a Erto Casso del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, commemorazione che nei vari interventi ha riconosciuto senza se e senza ma che il Vajont è stata una catastrofe causata dall’uomo, dalla sua volontà di magnificare i prodigi della scienza, dalla sua logica del profitto a qualsiasi costo: 1.910 uccisi dall’onda gigantesca.
La “natura crudele” non ha colpe. Anzi cerca a più riprese di allertare soprattutto gli esperti (ingeneri, geologi, tecnici), i residenti non ne hanno bisogno. Manda messaggi. Espliciti. Ma ad ascoltarli ci sono solo i montanari, che sanno che il monte Toc non è fatto di roccia stabile, e Tina Merlin che presta loro ascolto facendosi appunto voce collettiva attraverso il giornale.
Natura crudele è il titolo dell’editoriale che l’11 ottobre 1963 il Corriere della Sera pubblica a firma di Dino Buzzati. Non è sul posto. È in redazione a Milano. Non è un articolo d’inchiesta. È appunto da terza pagina. Redatto dal Buzzati scrittore non dal Buzzati giornalista. Patrizia Dalla Rosa, responsabile della ricerca del Centro Studi Buzzati, dell’omonima associazione internazionale di Feltre, non fa giri di parole: «Un brutto articolo» nel quale si celebra la maestosità della diga e si condanna la natura appunto crudele che si è voluta vendicare della sfida che l’uomo le ha dichiarato. Buzzati ha 57 anni, al Corriere è inviato e vicedirettore della Domenica del Corriere. Ha già dato alle stampe romanzi di successo che lo consacrano fra i più grandi narratori del Novecento: Il deserto dei tartari è del 1940.
«In lui – prosegue Dalla Rosa – lo scrittore è preesistente al giornalista». E a rileggere quell’articolo che molti sopravvissuti – e non solo – ancora non gli perdonano, non si può non rimanere affascinati dalla capacità di rendere sulla carta emotivamente gli ultimi istanti di vita dei longaronesi e il silenzio di morte dopo il terribile boato.
Merlin scrive per «il giornale dei poveri», Buzzati scrive per il giornale della borghesia, dell’imprenditoria. E se sul quotidiano non si schiera in maniera netta contro la diga e il progresso insensibile, la tesi di Dalla Rosa è che lo faccia come romanziere, in particolare nell’opera “Il grade ritratto”.
Lorenzo Viganò, giornalista, esperto di Buzzati e curatore dell’opera per Mondadori, si concentra invece sull’incipit dell’editoriale “Stavolta per me è una faccenda personale”. «Buzzati non è un giornalista d’inchiesta» gli viene chiesto di redigere un pezzo contando quasi sicuramente sul fatto che lui quei luoghi li conosce, che lui lì ci è nato e ci torna d’estate per le vacanze. E mette in guardia dal giudicare con gli occhi e la testa di oggi. Viganò non dribbla accuse e critiche. Bensì le affronta chiedendosi e chiedendo: «Si tratta davvero di una tale onta da oscurare quarant’anni di carriera, tale da mettere in dubbio la sua professionalità e la sua onestà intellettuale? E ancora che cosa ha mai scritto di così grave per meritare tutto questo?». Viganò invita a indagare. E richiama l’articolo di Bocca, a distanza di quarant’anni, quando condanna «con spocchia» Buzzati per aver scagionato i costruttori della diga e assolve se stesso per aver sposato la stessa versione da inviato de Il Giorno sul luogo del disastro.
«Piaccia o no nell’imminenza dei fatti – afferma Viganò – era quella l’interpretazione più naturale, più ovvia adottata da tutti i giornali, tranne che da l’Unità di Merlin».
Lo stesso Montanelli si inserisce nel mainstream dando degli sciacalli, dei mestatori d’odio ai comunisti. «Accusare Buzzati di aver volontariamente taciuto le colpe degli uomini, di essere rimasto in silenzio per incompetenza, per opportunità o per altro, di fronte alle vere responsabilità, è oltre che fuori luogo, ingiusto, sia umanamente che giornalisticamente». E non si può certo escludere, aggiunge, che il Corriere nella sua posizione di giornale a grande tiratura nazionale abbia raccomandato ai suoi redattori iniziale cautela.
A Buzzati viene chiesto un commento a caldo. Il suo non è un giornalismo investigativo. Buzzati insomma non è Tina Merlin. «Non è il suo compito cercare responsabilità, che sia il caso di Rina Fort o dell’affondamento dell’Andrea Doria, il dramma di Marcinel o la strage di piazza Fontana. Compito di Buzzati è analizzare emotivamente e umanamente l’accaduto, vederne riflesso il senso della vita e della morte, del destino. Leggerlo come specchio dell’esistenza».
Lo fa anche con il Vajont, non nascondendo il dolore, lo strazio. E non a caso quell’articolo è fra i più studiati nelle scuole di giornalismo. Ma non come un articolo d’inchiesta.
Dove sono le croniste e i cronisti oggi? È l’interrogativo finale posto da Andolfatto. «Il mestiere non è cambiato, sono cambiati i mezzi, gli strumenti, la società». L’esempio, la figura di Merlin sono quanto mai attuali: nel modo di muoversi, agire; nei tentativi di censura e purtroppo anche nel precariato che può minare alla base l’indipendenza di chi fa giornalismo. Merlin fa domande, pretende risposte. Non si ferma. Ha coraggio. Si prepara. Studia. Perché solo con lo studio e l’approfondimento sa che si è in grado di porre i quesiti giusti. Quelli che qualificano il professionista dell’informazione.
«Fare la cronista oggi – dice Andolfatto – è più facile per la “cassetta degli attrezzi” che si ha a disposizione, dalla Rete allo smartphone, per certi versi è però più difficile per la complessità dei fattori in campo, per la velocità che è imposta da una dimensione di “presente eterno” che cancella la memoria e annulla il futuro. Servono preparazione, formazione, capacità di lavorare in squadra anche per non essere isolati e diventare quindi facili bersagli».
Merlin ha cercato di fare squadra, ma come ebbe a dire in una delle poche interviste che le sono state fatte, i colleghi che lei ha cercato di coinvolgere le hanno espresso solidarietà umana, non professionale. Aveva capito che un’unica voce non era sufficiente. Forse se si fosse realizzato un coro di voci…
Si commuove. E non lo nasconde. Renato Migotti, l’architetto Migotti con studio in pieno centro a Longarone, nel 1963 aveva 16 anni. Si è salvato. È presidente dell’Associazione superstiti Il futuro della Memoria. Gli occhi con cui guarda, scruta, il pubblico sono gli stessi che hanno visto l’indicibile. Ammonisce. Nel 2008 l’Unesco decreta che il Vajont è il peggiore disastro umano al mondo. «Sessant’anni dopo, il peggior disastro che possiamo commettere è dimenticare e ripetere gli stessi errori».
Gli organizzatori dell’evento, fra cui la promotrice Antonella Giacomini, ha anticipato che seguiranno gli atti del convegno a cura dei relatori.
Nella foto, da sinistra in piedi Viganò, quindi Nota, Lotto, Dalla Rosa e Andolfatto