Genova, serve un giornalismo capace di pensiero critico: una scommessa per l’intera categoria

In Sindacale by SGV Redazione

Il giornalismo, oggi, è radicalmente cambiato. Non è più tempo di autocelebrazioni, di aneddoti d’altri tempi o di nostalgia del passato. E lo specchio di questo cambiamento, agli Stati generali dell’informazione in Liguria organizzati da Sindacato e Ordine a Genova il 15 ottobre, ha rimandato l’immagine di una professione impoverita, frammentata, logorata da anni di disattenzione e da un’industria editoriale che ha smesso di investire nelle persone, inseguendo solo contributi pubblici.

A ricordarlo è stato Matteo Dell’Antico, segretario del Sindacato giornalisti ligure, partendo da un simbolo: il Corriere Mercantile, testata nata nel 1824 e chiusa nel 2015 dopo 191 anni di vita. «Raccontiamo sempre il mondo, ma mai noi stessi – ha detto – adesso però dobbiamo parlare dei colleghi che vivono con tre euro lordi a pezzo, di chi deve aprire una vertenza per avere un monitor o un telefono aziendale. I giornalisti sono lavoratori come gli altri, e come gli altri hanno bisogno di tutele». Dello stesso avviso il presidente dell’Ordine ligure Tommaso Fregatti, che ha descritto un paesaggio mediatico in cui l’abusivismo si confonde con l’improvvisazione: «Alle conferenze stampa arrivano le claque, e chi filma in diretta su Facebook si presenta come giornalista. C’è chi lavora per testate registrate in cambio dell’accredito allo stadio». Una degenerazione che si intreccia con un altro fenomeno: la chiusura delle fonti. «Procure e questure comunicano solo con note stampa. I politici non rispondono alle domande, e perfino nello sport ormai le società controllano ogni parola».

Per superare questi ostacoli servono formazione e tutele. Perché la principale difesa della libertà di stampa è l’autonomia finanziaria dei giornalisti. «Se il giornalista non è tutelato, l’informazione perde forza» ha osservato la segretaria nazionale della Fnsi Alessandra Costante, ricordando che «abbiamo un contratto vecchio, scaduto nel 2016, con minimi fermi al 2012. È un contratto pensato per i giornaloni degli anni Ottanta, a cui è stato appiccicato l’online, i social, e che oggi non contempla l’intelligenza artificiale».

Proprio l’IA è diventata un banco di prova. L’episodio del quotidiano La Provincia, che ha pubblicato un articolo scritto da ChatGPT «senza nemmeno rileggerlo», è stato citato più volte come simbolo di una categoria che rischia di farsi sostituire per leggerezza, prima ancora che per tecnologia. Anche per questo Carlo Bartoli, presidente nazionale dell’Ordine, ha insistito sulla necessità di una riforma profonda dei criteri d’accesso: «Non possiamo accettare che si diventi pubblicisti con 500 euro in due anni. Giornalista è chi lo fa davvero, e per esserlo serve una formazione universitaria solida». La modernità, però, non è un nemico. «Podcast e social non vanno combattuti – ha aggiunto – ma portati dentro il giornalismo. Dobbiamo trasmettere trecento anni di storia a chi nasce con il telefono in mano».

Un’idea di apertura e rinnovamento condivisa anche da chi lavora nei media digitali. Sara Menafra, vicedirettrice di Open, ha spiegato come «il fact checking e l’ammissione dell’errore in caso di sbaglio possano rafforzare la fiducia dei lettori». Fabrizio Fasanella, de Linkiesta, ha invece tracciato la mappa dei nuovi media social: Torcha, Will, Factanza, KMagazine, Il Punto. «Sono nativi digitali, parlano con caroselli, reel e infografiche. Dal 2020 la dieta mediatica è cambiata: ognuno si costruisce il proprio menù, mescolando giornali, podcast e social».

E di nuovi media in effetti c’è estremo bisogno, perché la crisi dell’informazione non è solo interna. Secondo una ricerca presentata durante gli Stati generali, il 91% delle persone si informa tramite smartphone, l’80% ogni giorno, e lo fa soprattutto sui social o sui quotidiani online di cui si fida in misura ormai equivalente (il dato cala quando si parla di televisioni). Ma il fatto più preoccupante è un altro: molti non sanno distinguere una notizia vera da una falsa. Il sociologo Sergio Splendore ha spiegato che «la fiducia nei media segue quella nelle istituzioni. Dove crolla la fiducia nella politica, crolla anche quella nel giornalismo». E tra i giovani, «il baricentro è già spostato: più fiducia nei social, meno nei media tradizionali».

D’altra parte la politica ha perso da tempo fiducia anche agli occhi dei giornalisti. Finora infatti i governi non hanno mai voluto venire incontro alle richieste dei giornalisti e hanno preferito aiutare solo gli editori. «Mentre i nostri contratti sono fermi, gli editori hanno ricevuto 240 milioni di euro di finanziamenti a fondo perduto – ha denunciato Costante –. Hanno ottenuto profitti, mentre i giornalisti regolarmente assunti sono calati del 15% e il precariato è esploso». Per questo il sindacato si prepara alla mobilitazione: «Non amo lo sciopero, ma se dovremo farlo, per quei giorni non dovrà uscire neanche uno spillo». Serve infatti che la categoria ritrovi compattezza e forza. Perché se da una parte, come ha ricordato il presidente della Casagit Gianfranco Giuliani, «la nostra categoria invecchia e si assottiglia», dall’altra si registrano redditi di sussistenza. «Il reddito di cittadinanza dava di più di quanto gli editori paghino i collaboratori» ha aggiunto Roberto Ginex, presidente dell’Inpgi.

E dunque, servono ancora i giornalisti? Sì, ma servono giornalisti diversi: professionisti capaci di interpretare la complessità, di distinguere il vero dal plausibile, di usare i nuovi linguaggi senza perdere il senso critico. «Non è la piattaforma che fa il giornalista – ha detto Costante – ma i diritti che gli permettono di esserlo davvero».

A ribadirlo, da Genova, anche il vicesegretario vicario del Sindacato giornalisti  Veneto, Alessio Antonini, presente all’incontro: perché questa non è una battaglia locale dei colleghi liguri. È la scommessa dell’intera categoria.

Condividimi: