Una sentenza che conferma la libertà di stampa, laddove le procure si ostinano a indagare i giornalisti per scoprire le loro fonti nella contestazione del reato di violazione del segreto istruttorio. È quella pronunciata dalla Cassazione che di fatto accoglie il ricorso dell’avvocata Caterina Malavenda a tutela del collega professionista Simone Innocenti del Corriere Fiorientino. Riportiamo per completezza l’articolo a firma dell’amico Ivano Tolettini apparso il 25 marzo su L’Identità.
– I Pm devono mettersi bene chiaro in testa che non possono indagare i giornalisti per concorso nella violazione del segreto istruttorio con il pubblico ufficiale per il solo fatto che il carabiniere o il poliziotto di turno rivela loro una notizia, e i superiori di costoro vogliono risalire a chi è stato. Questo può avvenire, come stabilisce tassativamente la Cassazione, solo nel caso in cui il cronista “abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione, non essendo sufficiente ad integrare il reato la mera rivelazione a terzi della notizia coperta da segreto”. Pertanto, se è legittimo che gli apparati dello Stato cerchino di accertare chi ha trasmesso la notizia ai giornalisti, tuttavia devono farlo senza adottare metodi invasivi a danno dei cronisti come il sequestro degli apparati informatici, bensì ricorrendo ad altre tecniche d’indagine, senza violare il “principio di proporzionalità tra il contenuto del provvedimento ablativo, conclusosi con la duplicazione integrale delle memorie di tutti gli apparecchi rinvenuti, e le esigenze di accertamenti dei fatti”. Il freno imposto dalla Cassazione ai Pm è fondato sul bene superiore della tutela della collettività ad essere informata, principio cardine della democrazia, dove i giornalisti fungono da “cani da guardia” del potere. Sia esso politico o di qualsiasi altro tipo esistente nelle società avanzate. Ecco perché “ai fini della sussistenza del concorso nel reato dell’extraneus (il giornalista, ndr), è necessario che questi non si sia limitato a ricevere la notizia”, ma abbia agito in maniera pervicace e dolosa per ottenere l’informazione incriminata. Questo è uno dei passaggi fondamentali con cui i Supremi Giudici hanno accolto il ricorso dell’avvocata Caterina Malavenda a tutela del giornalista professionista Simone Innocenti del Corriere Fiorentino, dorso locale del Corriere della Sera, che il 17 maggio di un anno fa aveva firmato l’articolo che raccontava il suicidio di un’allieva marescialla della Scuola sottufficiali dei carabinieri di Firenze. In quell’occasione la locale Procura della Repubblica ordinava di sequestrare (in maniera contraria alla legge come stabilisce la Suprema Corte), il computer, i telefonini e gli apparati informatici del cronista per scoprire di fatto chi gli avesse passato la notizia, che avrebbe dovuto rimanere nascosta all’opinione pubblica. Venne perciò aperto un fascicolo per concorso nella rivelazione del segreto d’ufficio e il cronista venne tartassato dagli inquirenti con l’obiettivo deliberato “di disvelare la fonte informativa del giornalista, sebbene potenzialmente rilevante ai fini dell’individuazione del responsabile del reato”, anche se non aveva “alcun vera ricaduta sulle indagini, che oltre tutto sembrano essersi limitate agli accertamenti, preliminari e funzionali, volti a stabilire che si fosse effettivamente trattato di un suicidio”. Tanto più che la Cassazione sottolinea che “l’art. 200, comma 3, del codice di procedura penale, estende ai giornalisti professionisti iscritti all’albo professionale le guarentigie riconosciute dalla legge alle altre categorie professionali indicate «relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione, aggiungendo» che se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione delle fonti, è il giudice e non il Pubblico ministero a ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni”. Questa decisione è in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che in diverse occasioni ha ribadito come “la libertà d’espressione costituisca uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, precisando che le garanzie da accordare alla stampa rivestono un’importanza particolare”. Lo sottolinea con forza anche la sentenza della sezione seconda della Cassazione dell’11 gennaio 2023, presieduta da Fabio di Pisa, che ha respinto il ricorso del Procuratore capo della Repubblica di Foggia nel procedimento a carico del giornalista professionista Francesco Pesante per la conferma del decreto di sequestro probatorio del 22 giugno 2022, annullato dal Tribunale del Riesame. Ricapitolando, le perquisizioni dei Pm a danno dei giornalisti per sequestrare i loro apparati informatici per risalire alle fonti delle notizie propalate dai pubblici ufficiali (violazione del segreto d’ufficio, art. 326 c.p.), sono illegittime qualora il cronista si “sia limitato a ricevere la notizia”. Come avviene nella stragrande maggioranza dei casi, allorché le Procure con sequestri di telefonini e computer dei cronisti compiono atti definiti dalla Cassazione “illegittimi”.-