Il Manifesto di Venezia, anno terzo: colleghe a confronto

In Manifesto di Venezia by SGV Redazione

Il varo nelle sale Apollinee del Teatro La Fenice, giusto tre anni fa, oggi, 25 novembre Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Una data scelta non a caso per battesimo del Manifesto di Venezia, destinato a diffondere una informazione libera da stereotipi e pregiudizi, rispettosa della parità e delle dignità di genere, al riparo da facili e sedimentate discriminazioni.

A promuoverlo in primis il Sindacato giornalisti Veneto insieme alle Cpo della Fnsi e dell’Usigrai e all’associazione Giulia Giornaliste. Un’altra carta deontologica? No. Un decalogo da sottoscrivere in prima persona, giornaliste e giornalisti, quale impegno a mettere in pratica nel lavoro quotidiano di redazione un linguaggio senza violenza, declinato al femminile, scevro da narrazioni tossiche e morbose ancor più nelle cronache che vedono coinvolti donne o minori quali vittime di soprusi, abusi, omicidi. E con l’invito a utilizzare il termine femminicidio ogni qual volta l’assassinio di una donna sia riconducibile al contesto familiare o sentimentale.

Ma dal 2017 quanto è conosciuto e “praticato” il Manifesto di Venezia nella regione che lo ha visto nascere? Lo abbiamo chiesto a colleghe che operano in diverse testate oppure che da freelance si occupano di uffici stampa o collaborano con diversi media: Sara Barovier, Gabriella Basso, Marcella Corrà, Sabina Fadel, Micaela Faggiani, Claudia Fornasier, Nicoletta MartellettoAlda Vanzan. Il dibattito è aperto più che mai con le conclusioni affidate a Tiziana Ferrario, fra la “madrine” del Manifesto il 25 novembre 2017. Il Manifesto ha avuto l’onore del patrocinio del Senato, della Camera, del Miur e della Città di Venezia ed è diventato materia di studio nei corsi professionali deontologici. Nel gennaio 2018 è stato “adottato” dalla Regione Veneto con l’approvazione unanime della mozione dell’Ufficio di Presidente: “Una battaglia di civiltà”.

IL MANIFESTO DI VENEZIA

Va promosso di più

«Conosco il Manifesto di Venezia, ma il suo contenuto – esordisce la collega Marcella Corrà, caporedattrice a Belluno del Corriere delle Alpi – è ancora poco noto e soprattutto applicato in modo parziale. Secondo la mia esperienza, legata alla realtà di un quotidiano di provincia, da parte dei giornalisti che lavorano sul territorio c’è molta attenzione alla tutela di minori e donne vittime di violenza, a evitare descrizioni morbose e sensazionalistiche. Ci viene chiesto dalla legge e dalla deontologia e mi pare che per quanto ci riguarda venga applicato giornalmente. Il recente caso Genovese, l’imprenditore milanese che secondo le accuse ha sequestrato e abusato per ore una neomaggiorenne, e alcuni articoli sulla stampa nazionale che ne sono seguiti rappresentano però il chiaro segnale che di strada da fare ce n’è ancora molta, ed è importante la pronta reazione delle giornaliste, in questo caso del Sole 24 Ore, che sono riuscite almeno a far modificare l’articolo in internet».

Resistenze e abitudini

Concorda Nicoletta Martelletto, capo servizio de Il giornale di Vicenza, e ricorda un caso di cronaca nera avvenuto a Marano, l’omicidio di Anna Barretta per mano del marito Angelo Lavarra: «Ci sono resistenze a utilizzare un linguaggio rispettoso della persona e della parità di genere, non è ancora entrato nell’abitudine di scrittura. Nel femminicidio di Marano, ad esempio, la ricerca del sensazionalismo ha superato quella del rispetto della vittima. Purtroppo accade spesso quando si raccontano casi simili».

 “Bucare” la fortezza

«Ho seguito la nascita del Manifesto, l’istituzione dei corsi di formazione professionale, ma lo leggiamo tutti i giorni – incalza Claudia Fornasier, caporedattrice della redazione di Venezia del Corriere del Veneto – che non ha sfondato. Per quanto la sensibilità nelle redazioni sia cresciuta è ancora troppo legata alla sensibilità e cultura del singolo giornalista. E d’altra parte quanti anni sono serviti per far passare un cambiamento banale come smettere di scrivere “vù cumprà” per indicare i venditori ambulanti stranieri? L’ostacolo maggiore è riuscire a “bucare” la fortezza del lavoro quotidiano che sappiamo bene essere sempre più frenetico e incasinato, sempre meno aperto a riflessioni culturali collettive, a una crescita per “osmosi” con i nostri colleghi di redazione ancora di più in questo anno di smart working e lavoro solitario».

Differenze generazionali

«Il Manifesto è prezioso, ma leggendo molti articoli, e ascoltando i servizi di alcuni telegiornali ­ aggiunge Sara Barovier, capo servizio del Tgr Rai Veneto – è evidente quanto ci sia ancora da fare. Nella redazione in cui lavoro, in questi anni è sicuramente aumentata l’attenzione rispetto all’uso dei termini e nella descrizione dei fatti di cronaca che coinvolgono donne e nei femminicidi ormai sono bandite parole come “raptus” o “gelosia”». Barovier sottolinea che «la differenza di sensibilità è, spesso, data più dall’età anagrafica, che dalla differenza di genere. Ci sono colleghe e colleghi “giovani”, e provenienti dalle scuole di giornalismo, molto più attenti al linguaggio. Trovo per questo fondamentale che si continuino a proporre corsi di formazione professionale sull’argomento. Per quanto riguarda il linguaggio di genere, stessa osservazione».

Molto indietro sulla declinazione

«Credo anche io che ci sia ancora molto da lavorare. Troppo spesso nel riportare un fatto di cronaca su una donna che ha subito una qualche forma di violenza si tende tuttora a soffermarsi sugli aspetti morbosi della vicenda. Per non parlare dei programmi televisivi che entrano nell’intimità della vittima». Gabriella Basso, redattrice di Antenna Tre, considera il Manifesto un documento importante teso a offrire buone pratiche contro la disparità di genere e la violenza di genere. Ma è disincantata e ricorda il caso Botteri, l’inviata del Tg 3 oggetto di body shaming: «Trovo assurdo e irrispettoso che una donna, in qualsiasi campo lavori, venga descritta esteticamente e non professionalmente. Siamo infine ancora molto indietro sulla declinazione al femminile dei ruoli tipo sindaco/sindaca. La cosa che per altro più mi stupisce è come alcune donne per prime preferiscano la declinazione al maschile del ruolo come rettore e non rettrice, come se al femminile contasse meno».

«Ma quale sessismo!» 

Di diverso avviso Alda Vanzan, firma di punta de Il Gazzettino, che ammette di non aver approfondito la conoscenza del Manifesto e di non essere sensibile alle declinazioni di genere, perché «non essenziali rispetto alla sostanza del ruolo» . E sull’utilizzo di descrizioni “estetiche” per le donne di un certo peso nella politica o in latri ambiti, accusa le stesse colleghe di averla attaccata per un articolo sulla vice presidente della Regione Elisa De Berti: «L’ho descritta come una donna molto determinata, preparata, che studia, aggiungendo che ha un look quasi “maschile” e non fa uso di trucco. Sono stata tacciata di sessismo! Cosa che respingo al mittente, visto che il mio voleva essere un ritratto, non un pezzo su qualche iniziativa della vice presidente. Se avessi scritto che i leghisti, i maschi intendo, avevano le scarpe a punta mi avrebbero lanciato la stessa accusa?» .

Dare visibilità

«Declinare i termini al femminile – ammette Sabina Fadel, capo redattrice de Il Messaggero di Sant’Antonio – significa dare voce, visibilità, riconoscimento a un universo troppo spesso, ancora oggi, dimenticato». E sul Manifesto afferma: «Credo non sia ben chiaro a tutti che non si tratta di un documento deontologico, ma di un decalogo. Il linguaggio di genere purtroppo non ha sfondato del tutto. E se fra gli impedimenti si possono inserire la frenesia del lavoro e gli ingombri di spazio sui media cartacei, in generale la sensibilità non è ancora matura per capirne l’importanza. Ripeto, la fretta gioca la sua parte: più facile perseguire le vecchie abitudini, quando si deve scrivere o preparare un servizio in poco tempo: ma insistendo pian piano anche il linguaggio di genere entrerà nella prassi quotidiana».

Forma vs contenuto

È indecisa invece la collega freelance Micaela Faggiani, che tratta spesso il tema sul gruppo facebook che ha contribuito a fondare “Il cantiere delle donne”: «A me usare “sindaca” non piace, e tra le circa 5.000 partecipanti al gruppo c’è un’evidente spaccatura sulla declinazoine a ogni costo. Credo che la cosa fondamentale sia il contenuto sulle donne, non il termine usato per veicolarlo. Sicuramente è fondamentale lavorare affinché la parità di genere sia alla base di ogni articolo, di ogni libro».

Cosa fare

«È importante vigilare su quanto avviene a livello televisivo e sui social, dove il Manifesto sembra un illustre sconosciuto e dove tutte le indicazioni che vi sono contenute vengono continuamente calpestate» sottolinea Corrà.

Mentre Martelletto e Vanzan ricordano che la serietà nello svolgere il proprio lavoro, senza fretta e senza sensazionalismi, è alla base dell’attività giornalistica, Basso suggerisce di «parlarne sempre, educare chi ci sta attorno; soprattutto non chiuderci a discuterne solo tra donne ma ampliando più possibile la platea». Si spinge oltre Fadel: «Sono convinta che l’azione più efficace sia continuare con i corsi di formazione e magari istituire un osservatorio permanente, con “antenne” in ogni redazione, in grado di monitorare la situazione, segnalare i casi in cui i principi del Manifesto non vengono rispettati, e intervenire, se è il caso, direttamente con colleghi/colleghe e direzione».

Barovier sottolinea «che noi, come Tgr Rai Veneto oltre a essere ogni giorno attenti ai temi che riguardano la violenza sulla donna e le discriminazioni di genere, in particolare, in occasione del 25 novembre, affrontiamo tali temi con riflessioni e approfondimenti proposti nei telegiornali e giornali radio. Nella nostra pagina web si possono rivedere servizi e commenti  #insiemecontrolaviolenzasulledonne a questo indirizzo».

«Credo nella formazione, nella persuasione, nella crescita culturale – ragiona Fornasier – ma la strada per un cambiamento radicale, culturale e pervasivo è lunga. Come è stato per la presenza delle donne nelle liste elettorali o nei cda sarebbe tanto bello che “venisse da sé”, ma sappiamo sulla nostra pelle che non è così. Per questo penso che sarebbe comunque necessario trovare percorsi che rendano “obbligatorio” il confrontarsi di tutti con il giusto linguaggio (e non solo di genere)  senza che questo significhi imporre sanzioni».

Le conclusioni

Giornalista Rai, è stata conduttrice e inviata di politica estera del Tg1, e scrittrice Tiziana Ferrario, ha tenuto a battesimo il Manifesto di Venezia A lei il compito della sintesi finale.

«A distanza di 3 anni, penso che il giudizio sia positivo: fra chi fa informazione c’è maggiore attenzione sul modo di raccontare le violenze di genere. Sicuramente è una guida che dovrebbe essere molto più diffusa. Non solo, bisogna far notare quando si commettono errori, ad esempio titoli irrispettosi, e non solo sulle donne, perché il Manifesto va oltre. E se si sono stati degli indubbi miglioramenti, si può e si deve fare ancora meglio: penso ad esempio ai corsi professionali, non solo quelli rivolti a chi si affaccia al giornalismo e che spesso è già sensibilizzato su questi temi, ma a chi, da anni, decenni nei giornali, è abituato a fare titoli e pezzi con schemi che ormai sono superati. Ma c’è pure chi vuole provocare, ma questo è un altro discorso. Va compreso però che non stiamo discutendo di una mera questione di parole, perché dietro il linguaggio c’è sostanza. La differenza sta nel raccontare un cambiamento in atto o nel raccontare che un cambiamento non c’è».

Ferrario infine ricorda  anche la Carta di Assisi, promossa fra gli altri da Articolo 21 e Fnsi insieme a chiese e università, al pari del Manifesto, indica un piano d’azione, con l’incipit “scriviamo degli altri quello che vorremmo fosse scritto di noi ..”

«Due documenti importanti – insiste Ferrario – che, integrati, sono un vero e proprio vademecum su come si debba scrivere, fare informazione. Anche contro la diffusione dell’odio e della volgarità. E qui non basta il lavoro di sensibilizzazione, ci vogliono anche le sanzioni. L’Ordine deve essere più reattivo. “Le parole sono pietre”, recita la Carta, richiamando, come il Manifesto, all’essere consapevoli della nostra responsabilità. Non dobbiamo dividere ma creare occasioni di dialogo, perché se vogliamo che la nostra professione abbia ancora senso, dobbiamo essere diversi dai social, dove passa di tutto, incluse notizie false e non verificate. Con il linguaggio giusto, dobbiamo essere una garanzia di ricerca di verità».

Ferrario, infine, avverte che la violenza di genere non è solo fisica bensì pure culturale: a questo proposito, pensa non solo ai format televisivi, dove «troppo spesso c’è un uomo al comando, circondato da donne più giovani strizzate in abiti sexy», ma anche alle famiglie, «dove le informazioni che veicoliamo diventano oggetto di conversazione ed è necessario che il ruolo della donna e dell’uomo sia alla pari».

 

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